M.202
Le mie dita di colore bianco
toccano la tua rabbia;
ma abbiamo perso le parole
per raccontarci la tua rabbia;
solo sangue muto ora
esce da ferite dei tuoi occhi.
Da molto tempo non vuoi
le mie labbra. Da solo
uccidi in strada, teneramente;
come un coltello bagnato
adoperi il tuo cazzo di bambino;
come se il tempo fosse infinito.
Fu invano ascoltare il caldo del tuo corpo
nell’ora dei racconti;
non tocchi la mia stoffa sottile,
e non consenti che sia.
La mia schiena brucia, muovendo
lo spazio della definitiva distanza;
ma gela, lo spazio.
Tornare non serve.
Il Valentino
A Torino pensavo
avrei toccato il tuo viso
avrei visto i tuoi passi fermarsi
Euridice, e non più sfuggiresti.
(Avrei avuto un mio posto.)
L’ombra perenne del tuo viso
si piega ancora all’umida volta di pietra,
sei spinta via
dalla mia vergogna.
(Attendi i miei occhi.)
Una goccia di tempo di Torino,
e dentro è rimasto il tuo viso invisibile;
hai vinto facilmente.
Tornavo piovendo, misuravo le pietre morbide
di lana umida.
Amici
vi posso dare solo
la mia povera poesia
la finestra delle mie mattine
che ancora non è bastata
a guardare il mondo
a dar forma alle strade;
dolenti mi raggiungono pudiche,
carichi di dolore i vostri pudori,
mute di pena ripetono
che mi mandate con occhi risentiti
protestando lo scuro desiderio
di non ascoltare
il mio ventre aperto.
Cari
la luce dell’alba mi porta respiro
si apre anche il mio giorno
pure imperdonabile
asciugo ogni desiderio teatrale
rinuncio fino a contemplare il sorriso leggero
che non mi concede la clemenza di compiacermi.
E’ la vostra solitudine cui io do voce
quella cerca vanamente di uccidere
questa voce vostra.
La parola pesante della tua terra,
delle vie vecchie
riempie il suono islamico della voce
di troppo tempo;
in una luce angelica
ho incontrato platani nudi
come grigi marmi volanti
armati di silenzio.
Il detto ha ritmo pesante
di caldo e di chiaro;
come corpo di donna ingombrante
si chiude allo sguardo.
De tegumento sui
Come dire nudamente
e allineare pietre senza pelle;
voglio parole chiare,
voglio tocchi perfetti e pagine luminose.
Decido la semplice paura di acqua e di vento,
l’urlo di quel silenzio e l’odio
decido quell’odio
e dovrò pagare quest’arroganza
l’arroganza di dire parole ultime,
più grande delle pietre dei muri di queste città.
E ancora mi porgerò alla tua bocca
al tuo sguardo di scandalo
il tuo sguardo orribile,
pagherò, per l’acqua e il vento.
Potremo dimenticare l’immagine?
Damnatio imaginis, falsa espressione, guardiana della città
Tegumentum sui, genitivo soggettivo e oggettivo.
Custodiamo la distanza tra il chiuso e l’aperto dell’immagine.
Gioco le mie parole fredde
Come dita di colore bianco
Su un tavolo antiermetico
Che non mette posta sul significante
Et per hoc signum crede al canto del verbo.
Al MeP Firenze
Il residuo positivo della negazione
assoluta permanente
è la sofferenza e il godimento sadomaso –
il tragico nichilismo impossibile.
Dove il lino bianco
tocca il ferro unto
di un altare fermo al vento
e la nebbia accarezza il cemento
morbido
allora un uomo da solo
sale scale
leggero
e ha febbre di moraviano disgusto
della maleodorante chiassosa infida famiglia di invasori.
Questo fango grigio di silenzio
disegna la pura
linea botticelliana
della nostra angoscia
che nessuna colpa
può lenire
per quanto savonaroliana
di parole troppo alte e stridule.
Solo con tutto il danaro perduto
e l’oblio forse finalmente
alla catena umida
senz’alcun fiero pasto
damnatio memoriae;
e una razza di vinti
cammini sulla terra
e abbia cura di non ricordare
le nostre pietre finalmente polvere.
Il fresco delle parole
porta il semplice al chiaro;
gli spigoli del tuo viso
scurano una voce con sorde ripetute litanie.
Costruirsi una colpa, è il presente delirio
della vergogna perduta;
non poter più lasciare
che accada destinale
il terribile sacro dell’obbedire.
La paura nel tuo ventre umido.
Silenti geometrie e vuoti mattini
accolgono i miei pochi passi.
Trovo sordi silenzi;
non più la gioia obbedienza.
Indegno di legge rimugina il bisogno;
ho venduto l’anima senza pudore
per oscene immagini.
Coloro che giungono sperando di bere
troveranno macerie di libri
che dovremo ripagare;
falsa remissio di una stanca ubris.
D’acqua cupa il corso
risalgo tra pietre,
nero quel piombo
riempie il cammino;
ricado tra antichi vortici
e case onuste di volte umide,
di lunghi torrenti perduti
dimentico il nome, e la fine.
Non voglio che la luce
mi tragga da queste chiuse;
muri coperti di parole non mie
accoglieranno la mia attesa fredda.
Non sarò più chiamato
a uscire dall’acqua.
Il sorriso che mi porgi
al tuo specchio,
io che sono il tuo specchio.
Che una parola lieve
non disturbi il tuo sguardo perfetto.
Quanti siamo rimasti ancora
vulnerabili, in attesa;
e le tue ciglia hanno visto le mie.
Cos’altro è amore.
Passeranno i secoli,
e ci sarai.
Senza colore
Una pesante attesa dello sguardo
pesante nei tuoi fianchi
e immobile attesa;
la noia trapassa questo luogo,
e ci porta altrove.
Non mi aspetto le labbra;
è il disgusto come una febbre
che satura ogni desiderio,
il dolore che colma le viscere,
carne inutile e anima sorda.
La mia aria è ferma.
Il glicine giallo delle tue gambe
viluppo morbido di pelle grigia,
sulla tua fronte chino lo sguardo,
dita lucenti prendimi l’anima.
Soffia parole di neve che brucia
bianche tue labbra ho visto dischiuse
muovi i capelli mossa da un dio
tremano i piedi, appresti l’uscita.
Resto nel tuo odore;
spero ancora la luce
che domani riporti.
Nel puntare di un piede
trovo il peso del vino
che bevvi in tua memoria.
Io preferisco la morte.
Volevo capire
cosa vi fa godere,
che verità
vi posso vendere,
com’è contaminato il vostro desiderio.
Volevo
che mi dicessi
l’oscenità del tuo tacere,
come nascondi la menzogna.
Io preferisco la morte.
Non ci è dato di ricevere senza prostituirsi
(fresche fanciulle e loschi camerieri)
nessuno è fresco né losco
sfondo allo stesso stessino di turisti inebetiti di caldo,
sindrome di Stendhal senza polase,
auto-tossicodipendenza da oblivio.
Io preferisco la morte.
C’è mai stato qualcuno che avesse solo paura
che solo volesse uccidere, senza piangere,
senz’aspettarsi di essere guardato.
Io preferisco la morte
a quel velato sorriso del tuo silenzio,
preferisco morire da solo
godere finalmente la paura del vuoto
non avere più nostalgia del caldo del mio stupro,
mai ci fu.
Quando Medea uccideva i suoi figli
Godeva l’orrore incomprensibile
A noi, soli in corridoi muti,
Che con chiuso mormorio rigide
Pleiadi proibiscono la luce.
Alcuni spazi restano vuoti, ma
Come trascorrervi forti pensieri,
Neanche più il vento copre il mio capo.
Ora leggero guardo scorrere il vivo
Muovere di colori e le tue mani;
E’ lontanissimo quel mio ricordo.
Un amor de lonh
Albero che sorgi dalle sue anche
E pieghi linee di densa pienezza
Alza un profilo simile al platano
Che schiara d’ombra opaca la pelle.
Cerco l’odore della tua paura
E ti offro la mia; è troppo parlare
Se il cielo ci guarda, soltanto la pelle.
Non spero la pace delle tue braccia,
La lingua ombrosa, né i passi morbidi;
Lascio che tu celi il pensiero di te,
Resto carico della tua assenza.
Posso far poesia di poesia,
è questa la metafisica,
cogliere il senso divino
di cogliere il senso?
Che non sia forma,
sia il sangue dei miei occhi.
Il sangue è non mentire;
ma che verità nella scena della tua seduzione,
a che la rinuncia alla tua anima,
per obbedienza ad un’accoglienza,
il godimento del puro lecito
e il godimento che ne va tutto oltre?
Poiché è finita quella legge
e ciò che resta parla mille volte di morti
una legge soltanto infinita
mancante cioè del compimento;
solo un cappello,
ripetizione su una testa di vecchia stridula che campa di like.
E’ un’eco cui mi posso affidare;
resto unico, ultimo luogo.
Montaliana?
E’ colpa dolorosa
ricordare oggi
i colori perfetti
di quel politeismo
che non cercava conciliazione di opposti
e manteneva gli dei diversi
e insieme neanche accoglieva
contraddizione – che è sempre unità;
lasciava splendere ogni luce.
Il tempo dello stupro illuminante,
prima della suprema angoscia e imperfezione
dell’unità genuflessa – davanti sempre a un unitante;
quel tempo delle parole sovrane
come lame destinate a morire
senza resurrezione.
Ora? Qualcuno dovrà pure aver torto,
perdio, e qualcuno volare!
Avevamo pure una promessa; invece,
ci dobbiamo dire da noi che
naturalmente non ci meritiamo altro
che un debito senza fine.
Resto sospesa, poggiata,
l’eccessiva pienezza animale esposta
alla medesima attesa informe,
che attesa non è,
dove il tempo non passa e solo è.
Raccolgo le carni torpide
e muovo la doverosa accoglienza,
mi impegno alla precaria presenza
per il dolore di chi chiede.
Copro il mio silenzio di parole velate,
e sorde contemplazioni,
nel vuoto del mio ricettacolo
sono esausta, affollata
di stratificazioni senz’ordine.
Cerco invano di essere
posseduta da un dio senza nome,
il suo lamento risuona nella mia bocca.
Ancora un’ora per toglierti l’anima;
un’ora, sì, ma che serva solo
a farti sentire il contrario di quell’ora,
il tempo che dura e non ci sono.
Un altro gesto, ma che sia solo
di negare quel gesto;
una parola che ti sveli che non è per te.
Questo è il commercio: sarai sempre
un passo indietro,
per quanto tu paghi, avrai solo
la mancanza di ciò che compri.
Posso darti quel che chiedi
e questo è ciò che ho:
che tu veda, in ogni attimo,
che mi ti nego.
Come osi accogliere il più piccolo dio,
parlare della sua presenza;
esso viene quanto basta
a mostrarti che non c’è.
Come fanno gli dei
a non esserci?
Ma se apri al mattino
e dichiari il tuo amore
per un attimo mi sorprenderai.
XXII
Se il sé pieno teme il vuoto, un sé vuoto porta la macchia della mancanza; il sé vuoto è imperfetto e la paura diventa angoscia.
Porti una vulva come fosse
un cucchiaio lucido;
metto il mio viso acceso
davanti lo sguardo fermo
di un immobile concepimento,
incommensurabile abisso
di un futuro muto.
Tu ignori, intanto, lo specchio
di parole inopportune.
Non ci è dato sapere
oltre il vuoto della nostra presenza,
quale coro limiti l’orizzonte e lo riempia.
Ho perduto la memoria
di me nello spazio del mondo,
in cui perdersi o perdere;
ma è quasi una colpa percepire l’istante,
è l’angoscia del proprio vacuo.
Delle mie mani io vedo
il tempo nuovo e vecchio,
figure morte di parole
che porgo ancora piano.
Le ombre e il peso di ora
corrono sulle tue dita
a consolare le mie.
Piccoli luoghi restano
e spente luci al mattino.
T’alzi lieve; prepari il silenzio.
L’erba bruciante ha toccato
le sue pieghe gonfie di tessuto,
ma lei non vuol più che io mi trattenga;
il suo sguardo celeste
tocca la fronte della mia mente,
tanto fugge quanto resta,
e mi offre le ciglia più pure.
Vorrei consolare i tuoi passi,
raccoglierti le labbra immobili;
vorrei saper rispondere
alle tue domande soavi
ai chiusi colpi delle tue mani
o al dolore del tuo viso,
alle gote meravigliose.
L’impurità si frappone
tra lei e sé; soverchio stupore
invade altre bocche che si aprono.
Sono sospeso sulle mie parole,
luce e buio mi percorre la pelle;
promette molto amore giungente
su un soffio d’aria.
Entro e ritrovo il tuo corpo cupo
che porti muta e con passi pesanti,
e la noia di sguardi e parole.
La mia noia divina
oscilla su abbandono e solitudine,
dove affonda la luce.
Vorresti essere altrove; io altrove ci sono:
ogni giorno tocca tessere la tela dei propri luoghi.
Grasse parole chiuse,
inutili umidori,
sfuggenti stridi d’uccello.
Conosco i tuoi occhi vuoti,
l’attesa neanche masturbatoria dei tuoi pomeriggi.
Le litanie asciutte ovattano lo spazio,
impossibile più ascoltare il silenzio.
Non ho fretta di non aspettarti più,
tu che non sai nulla della tua pelle tarda;
non è tua la corruzione, né la freschezza, né il comando.
Se voglio, vigliaccamente mi vendico,
e saluto lo splendore che mi giunge lontano.
Ti ho tolto la gioia immemore del mio dolore,
rimbalzo ripetuto senza storia,
ri-calcolo non ben fondato.
Ti ho tolto la mia finestra cieca;
ora accendo subitaneo lo specchio del tuo tempo.
Ricordo quel che mio padre
non volle io gli donassi,
mentre beveva il mio sangue.
Si difese assolutamente dal dono mortale del mio splendore,
cupamente custodiva una lama femminile.
Le generazioni mediterranee, financo europee,
densamente sincopate di discontinuità.
Come può essere davvero lo stesso sole, ogni giorno?
se nessun giorno ritrovo lo stesso,
lo stesso.
Un dio ha voluto celarsi a me,
fingendo di morire.
Ora vorrei che la mia carne fosse dispersa velocemente
a bagnare la sabbia assetata delle vigne;
ma la nebbia sul mare della mia terra,
che non ho mai visto,
potrà ancora raccontare il mio pudore?
Dovrei essere in torto
a sostenere il tuo sguardo
quando la luce non è vinta
dalla pioggia più morbida?
L’aria mi manca
al pensiero della tua pelle,
e con una sola unghia
tu tagli ogni parola?
Prevarrà la stoffa di un abito duro
sullo sguardo oscuro
della tua distrazione.
E’ solo questione di tempo,
ma non consentirai che alcuno
sia lì a raccattare le tue briciole.
Meglio morire, perdio,
piuttosto che una sola parola
prenda il volo da sé.
Autoemofagia
Il poeta si nutre del proprio sangue,
come fosse vino.
Una pelle trasparente protegge le sue vene.
A Sandro Penna
Non è tempo di stagioni languide di morte stagioni
di ciglia fuggevoli, prati che mormorano;
non hai da arrossire di impenetrato pudore.
Magari, arrossire; poter ancora offrirsi allo sguardo.
Correttezza vuole esporre colpe infinite,
ma è al più nostalgia di vergogne dimenticate.
Ragionieri del sesso ostentano misure del tuo collaterale
ponderato da un premio di rischio obsolescenza;
mi imbatto in video-book prezzati,
fresche rasature toniche labbra, in inutili case romane.
Importuno risveglio il blaterare ipnotico
con uno sguardo di paura,
stupro improvviso a una svolta di luce,
lingua sconosciuta e un passo tanto veloce quanto rattenuto.
Resto sul bordo tra solitudine perfetta
e completa comunanza, tra denaro e obbedienza,
attendo finalmente la sua morte.