N.42
L.92
Fallo lacrimare un po’ questo tuo mare,
attraverso gli occhi limpidi dell’addio,
dentro mattine che si scontrano e scivolano
su finestrini deturpati, su treni desolati
dove onde ardenti lambiscono marosi bianchi
e lo spazio oltre il vetro è uno strazio
a perdifiato di blu-bottiglia-verde-rame.
Dedicagliela, una o due malinconie,
quando le commesse di Bologna avvolgeranno
il tuo cuore in fogli d’oro e seta,
quando vino e vomito, in una qualunque sera
avran disegnato rigagnoli randagi
dove perderci la strada e ritrovarti a casa.
Quando del fragore buono di maestrale
ti sarà rimasto solo un sospettoso ricordare,
mentre forse consumerai frettolosa una mattina,
nell’attesa di un qualche rantolo di tram.
Prova a fermalo allora, sulla tua guancia,
un rivolo salato di mareggiata: vedrai,
sarà l’emozione più dolce in cui tuffarti
per tornare a nuotare là.
De hodie status quo
Marciano le parole, dallo schermo
alle porte dell’ego, sono soldati:
sparano-uccidono, scavano buche
nel fango, molle d’opinioni
è la terra al di sotto di me
e loro attendono-puntano, cecchini
al tramonto di un’epoca senza pietà.
C’è questa guerra, ce l’ho dentro,
quotidiana s’affanna la memoria
e l’esito fatidico è in bilico
e balla il pensiero critico
per ogni spasmo di niente,
nessuno che abbia forza o voglia
d’uscir fuori dal momento presente,
provare a sbirciare l’eternità.
Così (vedete?) mi distacco ed espatrio
gradualmente le idee sul foglio
con la forza del soliloquio
e al volgere dei fatti sbroglio
la matassa del “c’è” e “non c’è”,
l’incertezze anestetiche dei “se”.
Marciano le parole, avranno marciato
in molte, così tante, così spesso
in grigia parata, nella quotidianità
di questo tempo balordo di senso,
d’avere scavato in fondo al cervello
una trincea noncurante di banalità.
Romolo era un ventenne stanco-irrequieto-ubriaco la sera che mi afferrò al collo, per insegnarmi il terrore.
Romolo aveva occhi ghiaccio-tempesta-alcol e una presa feroce da togliere il fiato.
Romolo non aveva gradito, chissà per quale motivo, che avessi risposto “le undici e un quarto” a chi mi chiedeva le ore, di lato.
E io soffocavo, occhi e bocca spalancati, mentre il nero-niente-abisso delle sue pupille si allargava, pozzo gravitazionale.
Romolo lasciò la presa solo quando vide apnea-paura-pallore, ma subito dopo dovette rivedere la sua decisione.
Romolo mi corse dietro per 3 isolati, 300 etri, 43 secondi, ma la sua follia-voce-risata me la sento dietro le spalle ancora oggi, talvolta la sera.
Romolo non era cattivo e nemmeno io lo ero, quando mi afferrò per il collo come un naufrago s’aggrappa ad un legno: per disperazione.
E io da allora sono cambiato, ho tremato-oziato-imparato per diventare qualcosa più che incerto-pavido-indeciso di periferia.
Romolo invece rimase debole-forte, annientato dal lavoro di muratore, 900 euro mensili in nero per 50 ore settimanali e 0 sicurezza.
Romolo era condannato a invecchiare-imbestialire a quel modo e la sua colpa non-scritta-non-meritata l’aveva decisa il mondo, a caso.
Romolo era sempre giovane e aveva ancora rabbia-stanchezza-alcol in corpo, il giorno che cadde da un’impalcatura, morendo trafitto contro un pilone.
E io invece sono qui, a spiegare-ricordare-raccontare non so nemmeno io bene cosa-come-perchè.
Dal momento che è il caso e non la giustizia, a decidere vita-morte-condanne, allora le colpe le voglio frugare altrove.
E persino un ubriaco-muratore-balordo trafitto in un giorno dei suoi 22anni, ha un nome e una buona ragione per essere ricordato, per lasciarvi qui e ora, a pensare.
Il canto della rondine
Stasera,
nell’etere immenso
del cielo notturno,
s’è aperto un taglio sottile
di livida luna.
Al cuore, abisso
di nostalgia.
G.118
Ascoltando cozzare bicchieri,
torcendo la coda alla sera,
assorta e stravolta l’attesa
su tavola nera d’unto e di vino,
abbiamo fatto buon gioco
a viso cattivo,
poi raccontato, sorriso,
per cose non dette,
bottiglie sottratte,
occhiate tradotte
in parole balorde
da un cuore deforme,
finché scolorite le ombre,
abbiamo sudato di brutto,
bevuto, ciarlato di tutto,
tralasciando codardi
quel crudo silenzio
che portavano appeso
come un cadavere
i tuoi dubbi alla fronte.
J.06
Percorsi molti chilometri.
Molti ancora trascorsi ad aspettare.
Cercando la felicità.
O per lo meno, cosa debba significare.
Qualche volta da solo.
Qualche volta in compagnia.
Sempre da solo
dormito con la malinconia.
E la domanda.
La bellezza dove sta.
Una frase semplice.
Un discorso facile.
Raggiungere qualcosa. Qualcuno.
Cercarsi.
Evitare il dolore.
Salvare una vita.
Accumulare cose,
come fanno i borghesi.
Oppure cantare,
come i grilli
nelle sere d’estate.
Delle cose del mondo,
degli scherzi del tempo.
Di bar e turisti perduti,
amici andati e venuti.
Senza motivo alcuno, cantare.
Con l’anima triste,
gli occhi spaccati e le mani,
le mani vive di speranza.
Comunque cantare,
a te compagno che ti fermi,
che mi leggi sul foglio,
che mi stai ad ascoltare.
Hands of chalk
Little, so little pieces of chalk,
fragments of light, tiny frostbites
against the green sight
of the hospital blankets.
Fragile, so fragile the night,
thin hopes crystalized,
may this day pass by
without fever nor harm.
Desperate, so desperate fight.
Eyes closed, in the dark
I can still touch
those hands of chalk:
there, after the rush,
“be quite baby, hush hush,
the doctor will ease
the pain, I promise, please”
and then light-years of waiting,
the nausea, the soul aching,
our personal golgotha.
there, where we sighed,
cursing time, heavens allmight,
but remained ’till the very last.
Dear, so dear pieces of life
we spent and left behind,
but still linger in the mind.
Even now, that you’re bold
and strong and fear no cold:
hard concrete behind the chalk.
PESCHE FRESCHE
Il cartello prometteva
PESCHE FRESCHE,
nella luce obliqua
il tramonto era provinciale,
lettere rosse sbilenche
come rossetto volgare.
E c’era caldo e affanno
e l’orologio misurava
nausea e ritardo,
diciannove e venti,
correvano veicoli
topi cromati lenti, lenti,
code in A14, lamenti,
fumo denso, denso,
acre di scappamento.
E oltre il tetto
in lamiera del cielo,
la cappa canicolare,
c’era sete e silenzio,
voglia d’essere mare,
di piangere e aspettare
per quella volta
e per ogni altra
avesse bussato al finestrino
caldo il desiderio.
Cedere al richiamo
di cose buone, naturali,
sapore di frutta,
stagioni felici,
bisogni elementari.
Troppo male essere
andati oltre, quel giorno,
ragionare, lasciar stare
quell’invito banale
che offriva al primo
disposto a provare
pesche fresche d’estate.
No human god could louder sing,
no mortal soul might ever lean
over such mighty heavens unseen.
for a touch of that remote sky,
a piece of hope, a tingling lie:
whatever could push us high.
fighting for glories or noble dreams
but in the end we go down the same stream
of tears and blood, no pain to redeem.
No bright angel could merryer sing,
no human hand might ever bring
such sweet peace to our bitter scene.
A.191
Nel disegno scomposto di capelli controluce
ciocche di versi barocchi irreali
ho intravisto l’ombra inquieta
d’un pensiero sollevato
nell’aria sporca
di Bologna
(un piccione)
(pioggia)
(parole)
(luce)
.
.
.
No,
non crucciarti.
Se i tuoi “giorni”
non fanno rima con “ritorni”.
Se i tuoi sonetti restano incompiuti,
desolate strade di campagna all’imbrunire.
Le tue poesie migliori sono dubbi che bruciano
(sterpi nella sera)
(capoversi di fumo)
(tramonto).
M. E. P.
Mettiamo
Endecasillabi
Per strada,
Messaggi
Ermetici,
Pensieri
Metafisici,
Elucubrazioni
Politiche,
Masturbazioni
Estetiche.
Poi,
Magari,
Emozioni in
Poesia.
Altrove
all’ombra fresca di querce remote,
dormiamo distesi, sogni sereni.
mentre il fosforo piove su scuole
e al buio s’uccidono anime innocue.
non permette di vedere e sentire,
giace la tomba più dura a sparire.
. . .
ma non è facile a braccia legate
…
dalle dita sfuggono grani di niente
sospensioni nere sul mio presente
…
forse soffrono anche le nostre
piccole povere parole storte
e a noi ricoverati non resta
che fissare sillabe in testa
con pianti e risa e pause corte
…
e non basterete mai farmaci
e mattine radiose in cortile
e voci chiare d’amici e medici
…
non basterà nemmeno la morte
e noi anime in tormento
resteremo solo silenzio
che non si fissa su carta
ma tremola dentro e resta
nella stanza senza porte
della nostra povera testa
M.219
echi di ricordi senza più voci
diavoli smarriti agli incroci
sussurri di vento nel deserto
tesori affondati in mare aperto
stanze meravigliose senza porte
segreti celati fino alla morte
messaggi a nessun destinatario
giorni scomparsi dal calendario
pensieri reali, anime instabili.
G.36
“Donne”: solo cinque lettere, una parola.
Ma mentre mi parlavi,
non più cose effimere,
dolci profili astratti,
sirene e chimere
di velluto e seta.
Donne come incendi di parole,
ardenti primavere,
nude in pieno sole,
ali forti mai arrese.
Donne, sollevate il viso dalle mani,
s’asciugheranno lacrime
nel fuoco dolce
del vostro amore.
V.35
Il futuro
si nascondeva
nei tuoi occhi,
screziature d’ambra e tenebra,
penombre futuristiche, istantanee di Berlino,
psichedelie di tatuaggi e lampi acciaio-piercing.
Forse indecisa, a un passo dal blu-abisso
della sera, dei tuoi anni (giovani),
scrollavi sigarette storte
e spalle nude e
ali dispiegate.
Tu non lo vedevi, ma io si (ero lì davanti a te): eri già pronta per volare.
Fossi stato un bravo artigiano, avrei afferrato le mie parole senza coda
e le avrei raccolte, origami incandescenti, per dire quanto eri speciale.
A.A.A. ANIME LIBERE
Un tempo eravamo giganti,
eroi o mostri trionfanti,
i palazzi facevam tremare.
Ora siam diventati insetti,
piccoli, omuncoli reietti
chiediamo scusa di respirare.
Abbiam perso qualche cosa:
le spine, il nome e la rosa,
la voglia forse di sbocciare.
Su ali stanche di ieri
siamo atterrati banali,
non più sogni eccezionali,
ma soltanto utili mestieri
per invecchiare uguali.
Perciò vai! Non farti fregare!
Finché hai fegato e ideali,
grandi fughe da inventare,
apriti lieto sopra al mare
e vola libero sulle tue ali.
Ignora tutti, non ti fermare!
Chi t’offre soldi o regali,
chi promette gloria immortale
ma chiede il mutuo sulla morale.
Ignora tutto, non ci pensare!
Ama il cielo col suo temporale,
e sarai come vento di maestrale,
fiero e puro, attraverso ogni male.
SILVIA CORRE
Silvia corre stasera a viso nudo,
fra fari e monossido, lampeggianti e panico
e il vostro sguardo atroce
a graffiargli pelle e cuore.
Silvia pensa, sono tristi
gli astanti, osservatori stanchi,
anime non-partecipanti
all’intima folle gioia
che oggi veste ai fianchi.
E non ha pudore, non ha timore
di sentirsi stupida, di sembrarvi impudica.
Lei corre, corre, oltrepassa ansia e terrore,
la vedrete danzare, dalla strada decollare,
volare fino al sole.
Perché Silvia è viva,
ha fiato e gambe, lividi e sangue
e questa voglia pazza di risalire,
non arrendersi a buio e dolore.
E sull’asfalto sporco stasera avvampa,
senza paura spalanca l’ali e accende l’aria.
Sarà fuoco puro la musica delle sue parole.
NON E’ LA FINE
Una parola scivolata
dalle labbra
a frantumare qualcosa
di fragile.
Una macchina guasta.
La rabbia, bruciata,
dentro un giorno
troppo triste.
Il rumore di una perdita
che non vuole
scomparire nella sera.
Quando ti fermi, l’angoscia
bianca su mani
e gli anni su inchiostro & cellulosa
e non riesci a trovare
un ordine felice alle cose.
Allora: respira.
Lasciati trascorre nel chiasso
di fondo
del tuo sotto-mondo.
Quando senti
di aver perso
un amico sincero.
Quando ti stanca il mattino
appena svegliato,
che a raggiungere
il tramonto
non vuoi neppure pensare.
Allora: rallenta.
Nella sfumatura attorno,
nel particolare, troverai
la forza di galleggiare.
Tu lasciati solo
un minuto di buono
silenzio.
E sentirai davvero
(sottopelle)
la spinta del sangue
e la voglia di ricominciare.
In qualche modo, avrai un altro giorno di sole.
AFFITTASI
perfetta estetica, carriera fantastica,
buona posizione, famiglia plastica,
letto fresco-pulito, sesso garantito
e sole in faccia anche quando piove.
Solo per farvi sentire come si muore,
come si è vecchi anche a scarpe nuove,
ché a tasche piene, sono l’anime a esser vote.
Prezzi modici, orari facili,
astenersi spiriti liberi e fuorisede.