R.06
A me fa schifo
la poesia “fragile”,
quella delle parole e dei lamenti
dei rimpianti, ricordi e rimorsi.
A me disgusta
la poesia che parla dell’amore
che non esce
o non riesce,
la poesia “dei coiti interrotti”.
A me piace
la poesia d’azione,
quella dei giorni di sole,
dei muscoli doloranti
e dei riflessi del sole sul cruscotto.
A me esalta
La poesia della fatica,
che mi vede vecchio
a trent’anni,
scrivere “ho già scopato troppo”.
A ore
C’è stato un giorno,
in cui ci dedicavamo canzoni.
Ci guardavamo negli occhi,
e sussuravamo nell’orecchie parole forti,
come ti amo, o
guardiamo più lontano ora.
Ci sono state le tue lacrime,
fra i fogli, nelle mie scatole,
ad acquarellare il nostro addio,
a tratteggiare i nostri arrivederci,
forse meglio fra cinque anni.
Ci sono state in fondo solo parole,
e labbra sul tuo corpo,
e unghie sul mio,
parigine spolpate,
e dita mozzate,
e niente più.
Mi manchi,
non mi manchi,
ore a consumare
petali di fiori,
che tenevano il velo dei miei pensieri.
Ora che ti guardo e non sei più con me,
non sei più me,
ma sei un altro specchio,
per cui qualcun altro riflette,
forse non te ne sei andata mai
da camera mia.
Tu mi dicesti che mentre dormo mi agito,
e raccontasti che mi amavi per questo:
Sembrava volessi partire ed andare
chissà dove,
chissà per quanto.
E che era meraviglioso,
allora mi chiamavi “amore”.
Ma dopo un po’ di volte,
che ho lasciato questi lidi,
hai iniziato a muovere la mano.
E mi hai detto di tornare presto,
di mandarti una cartolina,
che saresti stata lì ad aspettarmi per sempre.
Ed adesso dormo da solo.
Le mie spiagge le visito senza le tue gambe
fra le nostalgie a consolarmi.
Prendimi le mani,
ora che non esistiamo più.
Mi accuso
Un inciampo non è una caduta di stile.
Le mani scrivono
I piedi scivolano
E parlo di me.
Nessuno è arrabbiato come me
E vorrei una penna
Con la punta per ferire.
Già lo vedo
Lo schizzo di sangue
Nel giallo cielo
A dire che anche oggi è andata.
Meditazione
Traccio il tuo volto con la mano
Disegno il tuo corpo con la mente
La fantasia compone poesie.
Lentezza
É l’ora in cui si accendono le luci,
É ancora giorno,
La primavera spande il suo odore di terra scaldata e spalmata d’acqua.
Una coppia si urla a cavallo delle bici,
La malinconia mi assale,
Il silenzio e la lentezza e i passeri sugli alberi.
Risibile
Se prima sapevo gettare inchiostro sulla carta
adesso sono solo un pallido simulacro delle mie emozioni.
Ho il tuo corpo,
che mi tira a letto,
con veemenza,
come le gesta mitiche
dei personaggi di cui lessi.
Forse l’ingegno serve,
forse no.
L’unica cosa che serve
è scappare da questo fragile alito di tempo
che strappa via la mia carne
dalla mia coscienza
e da ciò che dovrei
e vorrei fare.
Giudico immaturo questo mio scrivere,
pervicace cercare parole
pedisseque
da far seguire
ad un flusso di pensiero
risibile e minimo.
Sepolto e dimenticato.
L
Felici come le rondini
che volano basse sfiorando il terreno,
prima della pioggia
e i lombrichi che escono
dalla loro tana
grazie all’umido
e per la prima volta
toccano il cielo.
Sui ponti ci scambiamo gli occhi
per ammirare meglio i colori.
Sfioriamo le mani,
ci baciamo,
fermiamo il mondo
con il nostro odore.
Preghiera
Appannami,
impediscimi Signore
di vedere come le cose mutano,
come si distrugge il percorso
che ho fatto.
Rilassami,
prendi la mia mente
e squartala,
cancella il mio futuro,
sezionala fino in fondo.
Strappa!
La mia coscienza e i miei pensieri
Sono la mia offerta.
Lasciami,
vivere di istinto
ribollire il sangue nelle vene
mangiare il prossimo mio
come me stesso.
Annienta i miei nemici
Gli oppressi,
i vinti,
gli stanchi.
Eradicali come il vento le querce,
fai che nella mia strada
non incontri nessuno
che non guarda il cielo a testa alta
per cercare in esso il suo riflesso e
non conferme.
Nebbia
Un mare così incerto da confondersi al cielo.
Ti aspetteresti di vedere le stelle riflettercisi,
nitide e chiare.
Invece era,
vaga ed infinita,
umile nebbia.
La luce e gli elettricisti
In chiesa,
mi persi fra pensieri gravi,
come la polvere sui marmi.
Avessimo un lume qualsiasi,
per rischiare i nostri tempi,
e direzionare il torpore.
Ah, gli Dei,
strane creature che evadono
la loroconcezione,
come mai generati
da stirpe alcuna.
Ed adesso,
nel buio delle candele
che inteneriscono i volumi e le forme
di quei volti
e di quei colli,
amoreggiano candide
le ombre della giornata.
Combattevo con linee e numeri
la mia indecisione
e battevo lo stilo contro il legno,
ritmando la fine progressiva.
Gli elettricisti.
Accesero le luci ai nostri santi.
Allora le loro sembianze sotto nuova luce vedemmo
e non avendone paura,
banchettammo sui loro cenotafi.
Il cervo
Se un giovane cervo vede un cacciatore
Mai fuggirà da questi,
e incuriosito lo guarderà, tremando,
mentre questi prende la mira
e spara,
ferendolo al cuore.
Gli alberi piangeranno in quel momento,
foglie, d’oro come maschere mortuarie,
cadranno dal cielo,
ma sarà soltanto l’abbandono di un corvo dal nido.
Così l’uomo vive solo d’illusioni
E lascia libero il cervo, preso dalla colpa.
Così il cervo rimane carcassa,
abbandonata in un bosco desolato,
quando avrebbe potuto
scomparire insieme al dolore.
Il mondo impietoso lo lascia vivere,
lo avvolge, risana la sua ferita.
Resta la cicatrice e l’esperienza,
fuggire dal cacciatore, e nel caso cada per sua mano
volgere il capo, che gli occhi non si incrocino.
Alcun fulmine lo colpirà,
sarà perso in brevi passioni,
come scintille di una coperta.
Il terrore reggerà i suoi piedi,
fino a quando non saranno quelli a cedere al terrore.