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Vorrei un gin

Non so cosa ti farei adesso.

Forse ti scompiglierei tutto.

Vorrei prenderti la faccia e disordinarla.

Cambiarti i connotati.

Guardati.

Guadami.

Sono un fiume.

Sono un lume.

Ferma in questa pattume.

 

Dimmi basta.

Dimmi quando devo andarmene.

Dimmi se hai grucce per le tue fisime.

Se hai bisogno te ne presto un paio,

così le appendi,

per quindici minuti.
 

Vorrei morderti il labbro,

il polso.

Vorrei ucciderti in un sorso.

Vorrei un gin,

per ogni volta che ti ho rincorso.

Ho il fiatone,

curva su me stessa,

in piedi in mezzo alla piazza.

Ho le mani sulle ginocchia,

e non so cosa ti farei adesso.

 

 

13 OTTOBRE (questa non è per voi)

Ripeto il tuo nome,

come un’ossessa,

solo per estinguerne il senso.

 

Ma non mi accontento di questo e

spesso il tuo nome violento.

Dandolo a sconosciuti dell’ultim’ora,

a una panchina,

e perfino a una suora.

 

Ti strappo anche l’immagine.

Ti riduco in brandelli.

Attaccato come mucillagine

ai miei fardelli,

te ne rimani li penzoloni,

a sentir le mie psicotiche ripetizioni.

 

Ogni 13 ottobre,

io uccido,

il tuo nome.

 

il tuo nome.

il tuo nome.

il tuo nome.

 

 

In mio nome.

 

 

 

Origami e fiammiferi

Origami di tempo,

poggiati qua e là,

sulle ambiguità di sua maestà.

 

Scorre lento, il bastardo,

fra insenature di catrame,

della pelle,

delle squame.

Lo perdo dentro ogni segmento,

Il fuggitivo del momento.

 

Sparsa come sale sulle strade,

bianche bianche,

stanche stanche,

la mia voglia di costruire,

un castello,

una capanna,

un ostello,

dove poter parcheggiare la noia

del Re e del reame.

 

Mi dica.

Si, Lei.

Proprio Lei.

Parlo con Lei.

Che sta leggendo di fretta,

questa cosetta,

con le mani incrociate

e le sopracciglia aggrottate.

Mi presterebbe un accendino,

se glielo chiedessi?

Un fiammifero magari.

Io li vendo sa,

su queste strade

bianche bianche,

stanche stanche,

come me,

che sono il Re.

 

 

Vi sfratto per un attimo

Lanciatori di coltelli,

travestiti da odori,

sezionano le amigdale,

fingendosi dottori.

 

Memorie di colori,

lasciano la stanza,

in cerca di luce

e un po’ di speranza.

 

 

Calpestami di domande,

mistica megera in mutande.

Vieni pure,

fatti sotto.

 

 

Che ci fai tu qui,

sopra il mio petto,

scendi giù maledetto!

 

Fatemi respirare,

per l’amor di Dio.

Datemi spazio,

sono disposta a pagare il dazio.

 

Mostri del buio,

che di me ridete,

che mi deridete.

 

Andatevene.

 

O almeno spostatevi un po’.

Ditemi che è uno scherzo

Questa è una congiura,

ne sono certa,

ne sono sicura.

 

Come può essere che ti sento,

per le strade,

nelle case,

nei minimarket pakistani.

 

Spargi il tuo odore,

con intenzione,

tutto intorno,

ed io,

sciocca,

con matematica assuefazione,

ti sento,

e il naso affondo.

 

 

 

 

 

Giacca

Ci siamo persi,

sai.

Ci siamo sparsi,

poi.

Come necessità,

nei desideri precoci,

che brucian veloci.

 

Ho perso,

non so cosa.

Un tutto a forma di niente.

Un lutto a forma di dente.

 

Ma il tuo ricordo,

mi copre,

come una giacca di rimorsi.

 

Né stretta,

né larga.

 

Né fredda,

né calda.

 

Nascondino

Ma tu che ne sai,

di come responsabilmente stringe,

 l’elastico dei giorni feriali

sul mio tratto gastrointestinale.

 

 

Ma tu che vuoi,

dalla mia voglia di giocare

con i mostri

a nascondino,

prima di dormire.

 

Ma tu chi sei,

e come ti permetti,

di nasconderti sotto il mio letto

rubando il posto

alle mie paure.

 

Dente

Tu sei
come un dente da latte,
che dondola,
e fa male.

Ma io ci passo sopra la lingua uguale.

Pollicino

 Dimenticami ad ogni angolo.

Ad ogni semaforo.

Ad ogni fila.

 Dimenticami il martedì,

alle cinque del pomeriggio.

O anche prima

 

  Lasciami cadere.

Pezzo dopo pezzo.

Passo dopo passo.

Sull’asfalto,

sulla ghiaia,

sulle strisce pedonali,

sull’erba e sopra i tetti.

 

 

Sono solo una mollica di pane,

lasciata per ritrovare 

la strada di casa.