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Attacchinodiprimavera

Marzo ’22
La notte è nostra amica in ogni via
Che si svuoti tacitamente:
E in quel silenzio di vicoli e strade,
Le nostre risa e il fruscio dei pennelli
Sotto il tappeto di luce lunare
Unita alle poche lanterne urbane,
Mentre si avanza con la propria colonna
Setacciando i muri, le cabine,
Le cassette… ogni superficie adatta.
Più avanzi, più lo spirito si allieta,
E la paura di essere braccati
Si dissolve come il ghiaccio fluttuante
Nel Campari. E tu sai che stai facendo
Una cosa buona, che non è per te,

Ma diresti lo fosse.
La prossima volta però voglio anche io il vino,
Ché non si può lavorare fino al mattino
Con in corpo un’aranciata annacquata

Caviglie bianche

Ho obliato la maggior parte delle ore
Passate insieme, ma alcune le porto
ancora con me, tossico cimelio.
Il mio cuore palpitava ogni volta
Che ti vedevo camminare scalza
A casa mia, col vestito blüette
Che seguiva l’andatura del passo
Affrettato, per non dimenticare.
E io ti guardavo irrimediabilmente
Perduto, non riuscivo a smettere
Di sorridere per i tuoi occhi
Color nocciola, i tratti ancor metà
Fra quelli di donna e quelli di bimba,
E per il modo che avevi di arrabbiarti,
Che più alzavi il tono e più eri buffa.

Ho obliato la maggior parte delle ore
Consumate insieme, eppure mi chiedo
Se arriverà il giorno in cui il nostro tempo,
Quasi dimenticato, non sarà
Più il migliore che abbia vissuto.
E mentre attendo risposte, continuo
A viaggiare contromano e ti vedo
In cucina come tanti anni fa,
Appena tolte le scarpe col tacco,
I capelli bruni raccolti indietro,
Le favole che contavi ai due vecchi,
La tua fame, il rimorso e poi la pace,
E vorrei non fosse tutto sì remoto,
Che avessi vinto con me le paure
Invece che impressionarmi a ogni colpa,
Al pensiero di ciò che siamo stati
E di quello che avremmo dovuto essere

Ode alcaica I: Languore

“Meglio oprando oblïar, senza indagarlo,/ Questo enorme mister de l’universo!/ Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo/ Mi trafora il cervello, ond’io dolente/ Misere cose scrivo e tristi parlo.”

È uno scuro meriggio di luglio,
Bufera che asterge l’afa distesa
Laddove con la sua rapìna
divora i broli del re dei fiumi;

È tenere fra le dita l’ennesima
Rizla sfilaccicando il Lucky strike,
Confezionare, dare fuoco,
Farsi danno senza affatto curarsene;

È giacere sul letto, gli occhi chiusi e
La mente offuscata, fallita ancora
Un’occasione, e affrontarla come
Se d’altri e non tuo fosse il problema;

È essere stanco di questo torpore
Dove ogni umano vizio mi blandisce,
E che dovere inteso per prova
Quasi ïo non abbia mi dipinge.

Ma ciò che più mi logora non brucia,
Lentamente mi sfibra il pensïero
Privo d’azione materiale,
Che invisibile a me si asserpa

E vivo di fugaci attimi di vita
Come la console che sotto la polvere
Dei cimeli invidia, più bella,
Il desco della prima colazione

Memore

A coloro che hanno contribuito a creare tutto questo, e a quelli come me che avrebbero voluto vederlo nascere, ma che oggi hanno il compito di mantenerlo in vita, con passione e dedizione

Invecchiate, imbruttite, stanche o annoiate,
Diplomate, laureate, dottorate o espatriate,
Costrette per lavoro e per famiglia,
O da doveri più forti rispetto a ieri:
Quante sigle oggi non ci sono più!
Non leggerò mai i primi versi
Dei pionieri, oggetto di scherno
Ed esposti al ludibrio fiorentino,
O quelli di chi solo ha fatto uno o due
Giri di giostra prima di me…
E quante ancora se ne andranno
Disviando da questa strada
Che unisce tante anime inquiete.
Sorelle ditemi, vi prego: che fu
Di tanto grande a portarvi via?
Io non lo saprò mai, ma ho vent’anni,
E non posso biasimarvi: se sono
Qui è anche colpa vostra, antiche sigle,
Mai dimenticate. Io vorrei parlarvi
So che avrei molto da imparare
Da chi si è dato da fare per una
Questione che non riguarda poi
Tante persone, quella della poesia
E della sua emancipazione,
Che non porta né soldi,
Né potere o altri cliché,
Baluardo di speranza in un mondo
Che alcuni oggi pensano sia piatto:

Serve aggiungere dell’altro?

Et quod vides perisse perditum ducas

Se ancora mi accïeca il tuo riflesso
Non è per te sola o per quel che hai fatto,
È il livore che in realtà ho per me stesso:
Non vi fu tra noi alcun vero patto.
Io ti odio, ma davvero non hai colpa,
Valevi già allora non più di un atto

Tu, sola figlia di docenti agiati,
Io ultima prole di due poveracci.
Ma non è questo che ci ha separati,
Tu con abiti firmati, io con stracci:
La tua gonna non fu mai classista,
E le tue vesti eran di presti slacci.

Tu prima bimba acerba ed insicura,
Poi acre donnetta, parva e altezzosa;
Io non più io, perduto, senza una cura:
Forse fui io a sbagliare, questa cosa
Va detta, nel darti tanto potere:
Ma ora sto bene, e qui il verso si posa

Satura I: In Volusios

Scrivo tanto anch’io ma non servo molto,
a differenza di quelli che fanno
Grande scena della propria cortezza.
Io per me amo lo stile raccolto,
pochi versi ritmati senza il danno
Cagionato dalla poca destrezza;

Non amo invece le strofe inventate,
Sopporto con pena le frasi mozze,
E odio poi chi va a capo senza testa:
Ho letto tante di quelle porcate
Che sarebbe già tanto a dirle bozze!
Stamparle poi è un’offesa alla foresta.

Chiedo scusa per l’invettiva e il colto
Uso di un metro vero senza affanno,
Per il dosar le sillabe in scioltezza,
Per l’avere in pregio la poesia
E il non pubblicare cose buttate,
Senza studio ma con passioni rozze,
Nella forma più povera e più mesta

Il cantiere non si addice alla cefalea

Basta. Per oggi non voglio più nulla
Dal mondo. Odo latrati di lama,
lai di ferro e sbuffi di rotaie.
L’attesa s’inasprisce ogni minuto
Che avanza, vedo una fiumana fatta
D’una persona e un sottile stridio
Mi angoscia: voglio tornare a casa

Ode al proibito

Ho sete di gente,
Mentre giaccio sul letto
E penso all’aroma che proviene
Dalle persone, al suono
Che da esse si effonde per l’aria.

Ho sete di gente,
Mentre circuisco la mia stanza,
Alzatomi dalle piume per darmi
Allo studio, ancora e ancora,
E poi di nuovo al riposo.

Ho sete di gente,
Perché non si può dire
Vita quella che un uomo attraversa
Nel suo spazio misurato,
Senza macchia, né contatto.

Ho sete di gente,
Mentre per le vie, i borghi, i vichi,
Le piazze, sento l’assenza della folla,
Una sola persona di tribù diverse:
La ressa della stazione e del treno,
Il brulicame sotto il sole estivo,
La masnada che si aggira di notte,
Il popolo dei giardini e quello dei locali,
La torma che balla e quella che eccede,
La compagnia di sempre,
E quelle che un dì saranno;

Ho sete di tutto questo,
Ho fame di tanto altro,
Più che bisogni primari,
Ormai necessità esistenziali.

23 Ottobre ’19

Eri bella e te ne andasti con un bacio sulla glabella,
Lasciandomi stravolto come
Colui che è percosso
E davvero non lo attendeva,
Senza un motivo o una cagione,
E d’una cosa che si era
Divenimmo due come il corso di un fiume,
Rotto da una pietra.

Eri bella e te ne andasti con un bacio sulla glabella:
Perché anche in punta di piedi
Non mi arrivavi alla fronte.
E mentre ti accingevi
ad andar via
Ti scendeva un solo caldo rivo
Per assentarti d’ogni cura,
Mentre il mio lago senza la sua fonte
Sì è seccato un po’ alla volta

Eri bella e te ne andasti con un bacio sulla glabella,
Quasi impressione di dogana
A varcar nuova frontiera