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Alterità #2

Io sono io
e non so di nient’altro
che non sia di mio.

Senti come suona bene?
La rima – suona
(tutta interna)
e di qui non fugge.

Per altre corde
saranno altre rime
e migliori dei primi
i nuovi accordi.

Quando – la notte –
cala da un cielo profondo,
fino alla tenebra,
li divora i colori.
Chissà, forse anche Cromo
divorava i suoi figli.

Ma è il perché
che mi scuote davvero.
La siffatta oscurità
da sempre dà
vantaggio al nero
e a ciò – che solo è.

Perché si appare
in forme e in simboli
diversi
di giorno.

Fucina di arti
e molla dei pigri
la noia sorride.

L’ameresti più bella,
più sana,
più sola.

Ma dov’è la Poesia
che sa ancora rispondere
con dis-grazia d’esegeta
all’esigenza senza pari
di rispondere a quel ‘non solo!
più che mai – vocato
(sapresti preporre un prefisso?)
senza spendersi, subito,
tra cattive compagnie
in un giro d’infamia?

La Poesia si trova
(qui parla il logico)
ma va cercata;
la poesia si cerca
(ecco il poeta!)
e va trovata.

Una costanza

Ci metto sempre un sospiro
nell’inforcare, consumato,
gli occhiali.
La penna
aspetta solo un mio cenno
e già si atteggia a dovere.

Vedervi fontane – di versi
m’inquieta.
Ma mai al cospetto dell’arte
la mia calma si spezza.

E il mio penultimo fiotto d’inchiostro
sapeva di vivace zampillo.

Un’impressione

Sono tutte già scritte
quelle poesie
che stupivano il te infante
e che hai passato a fil d’indifferenza
nella tua gioventù più vera.
Le riscopri
(giustiziate)
laddove le hai lasciate –
abbandonandoti
nella ragionata maturità –
nel saper calcolare l’istinto,
inviolabile,
nella crudezza di un gettito
che alle leggi del volo
sa sempre farsi penna.

Ai giovani

Non c’è più tempo
per attendere.
Pronunciate il nostro nome,
adesso,
prima che la tecnica
uccida l’uomo.

Dei maestri siamo –
ormai lontana eco
non è per noi
l’amor filiale.

Solo un nome
e sarà nostro il passo sul futuro.

Solo un’idea di ponte
e noi saremo strada.

Quando il tuo nome
comincia a starti stretto
è il momento di sorprendere.

Testimonianze #2

Ti muovi bene fra la folla
sicuro e deciso nel passo,
muovi bene le spalle,
schivando (ultimo)
lo scontro.
Quasi un passo di danza
ché nel pensier tutto ti quadra.

Finché, d’inversa marcia,
arriva il poeta
col mio capo chino,
(ché col pensier poco si quadra)
latore di urto maldestro.

Tira via – con lo sguardo basso
e la geometria in frantumi –
e con gli occhi tuoi sorpresi
di sorpresa e riscossa.

Una rapida estrazione,
come un pugnale nella notte,
per darti qualcosa.

Un baluginare metallico
sotto una fredda luce stellare.
A volto coperto e con lama snudata
pronta a tornare all’ombra del fodero,
nel rarefatto silenzio dell’eco di un passo.

Neanche volevo ferire, in realtà.
E’ stata sfortuna.
Come potevo tenere tutto questo per me?