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Evadendo dai lacunosi soffitti
mi sembra di vederli:
i ritratti di ognuno dei volti
(forse fantasmici)
che costellano le alture dell’Eros:
complessi, e troppo
(distortamente, tra loro) diversi.

Mi hanno detto che la perversione
può avere varie forme;
la mia preferita
è quella del far finta che
niente importi.
Un narcisismo egosintonico,
che ogni volta pare imprevisto.
Le categorizzazioni esistono
eccome,
è inutile che diciate;
se la mia svastica
(quella che ho sui fianchi)
mi insegnasse ad essere intollerante,
quanto basta, per governare
i varchi che ho tra le gambe
(suona male, sì, ma intendo dire che)
dovrei riuscire
un giorno, a procreare,
nonostante il vuoto del mio ventre
incapace, come il mio cervello
per un qualsiasi tipi di algoritmo,
di ritmo ossequioso, ossesso,
disgustoso;
la fame non del corpo
ma della pelle sopra-a-tutto
e le ossa non si sentono più,
spossate dalle rabbie (e gabbie) altitonanti
pietre laviche, spine sante…
cosa manca? Cosa manca
per i nostri romanzi?

Una bella –  romantica – fine:
una morte lenta, struggente,
per mettere punto alle nostre
più dubbie, e insistenti,
esistenze.

Chi ce lo fa fare poi,
di riprenderci per le spalle,
non comprendo davvero, non riesco,
a capire dove trovate le palle
per continuare a gridare, incazzarvi,
senza nessuna
voglia (più) di rinascere dai salici e
dalle fitte terre della laguna selvaggia e primogenita.
La gemma sostanziale
si trova lì, nel carnale caposaldo
del fiume in piena.

Lì si trova la fonte
di tutto ciò che circonda
l’umile tristezza della terra.