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Sei qui

Sei qui,
non c’è altro,
sei qui,
nessuna porta da aprire,
da sbattere,
solo l’aria,
sei qui,
l’esistenza in un punto.
Sei qui
e non manca più nulla,
non c’è da far la spesa,
da contar le lacrime.
Sei qui e ascolti
pensi, parli,
sei qui
e ogni parola è un antidolorifico,
un gradino per risalire.
Sei qui
e mi salvi,
salvi un intero universo
che nascondo nel vuoto che c’è
tra i miei atomi.
Sei qui
e mi capisci,
mi conosci.
Sei qui,
non devo aspettare,
sei qui,
posso sfiorarti,
posso raccogliere i tuoi abbracci
e metterli in tasca.
Sei qui e non ti nascondi.
Sei qui
e m’aiuti a crescere,
vivere.
Sei qui,
mi guardi, mi porti un sorriso,
uno spicchio di paradiso,
sei qui,
forse la felicità.
Sei qui
e ci sono anch’io,
perché sai come,
quando
non farmi cadere.
Sei qui.

Gli scheletri nell’armadio

Imparerei a sorridere,

se potessi seppellire quegli scheletri

che solo io conosco,

che mi vengono a cercare

di notte

e si nascondono dietro al tremolio

di finestre che scricchiolano, di porte che sbattono.

Volano

fino al mio letto

e nei miei sogni

bisbigliano rumori indistinti,

battendo velocemente quei denti morti

per dirmi qualcosa,

ma non esce alcun suono

da quelle labbra inesistenti,

eppure io intendo

quel che ho da ricordare

e ho paura

e non posso dirlo a nessuno

e nessuno vuole sentirmi.

C’è la mancanza d’un amore

che mi corrode le ossa

e mi riduce a scheletro

vivente

ed ogni lacrima che cade

è una sconfitta,

è un segreto che m’uccide

e nessuno sa che potrebbe salvarmi

anche solo gaurdandomi,

parlandomi di sè e lasciandomi entrare

nel suo mondo,

perchè nel mio

si muore.

Salice dei miei anni

Le sconfitte ricadono su di me,
piegata da desideri occulti
e paure innocenti.
Irruenti tutti quei baci
buttati,
succhiati, sputati.
La pece scorre nelle mie vene,
primordiale malattia,
l’anima di ghiaccio mi corrode
i pensieri più semplici e disonesti,
e brucia il mio cuore, di carta.
Cade cenere sulle dita,
vola via.
Il passato oltrepassa il tempo.
Abbandonarsi, morire.
Radicarsi, rinascere.
Non posso più sognare splendide delusioni,
deliri d’estate.
Cosa mi resta?
Mille volti, mille volte
ferita in mille modi.
Sempre diverso. Tutto uguale.
Tre note d’arpa sul fondo dell’oceano,
mai suonate, acerbe,
perdute e dimenticate
nella eco di abissi infernali,
dove mi cullo, prima dell’alba,
prima di andare.

Vorrei tornare

Vorrei tornare a quando ero bambina,

prendermi per mano

e dirmi che tutto andrà bene.

Vorrei potermi abbracciare e sorridermi

nel passato,

nel presente che passato sarà presto.

Vorrei dirmi che me la caverò con poco,

vorrei dirmi che vivrò di passioni,

di attimi che rinverdiscono il dererto dell’animo,

ma subito si dimenticano.

Vorrei sedermi accanto e stringermi,

piangermi addosso per quello che non so,

che ancora non so.

 

Dovrei dirmi di vivere il più intensamente possibile,

che la fantasia farà presto a scappare,

che la spontaneità farà presto a finire.

Dorrei dirmi di non pensare tanto,

di non aspirare alla crudele perfezione

che mi attrae e mi uccide.

 

Non mi dirò che m’abboffo di tristezza

per esser felice,

che mi cullo nell’illusione per esser me stessa.

Non mi dirò che non avrò mai un posto nel mondo,

che non mi riconoscerò mai in niente,

ma che sarà il niente a riconoscersi in me.

Non mi dirò che ogni stanchezza,

ogni vecchiaia,

ogni criterio instabile,

rendono la vita difficile,

insopportabile.

Non mi dirò che a poco a poco

tutte le cose perderanno il loro profumo

e il loro colore,

la bellezza della semplicità.

Non mi dirò che l’inutilità

si trasferirà nel mio letto,

che c’odieremo segretamente sotto le coperte,

ad ogni fine giornata.

Non mi dirò che ucciderò la bellezza,

più volte,

quella esteriore per prima,

poi quella interiore,

lentamente.

Non mi dirò che avrò paura della solitudine

che la morte sta sempre davanti

mentre la vita le corre dietro.

Non mi dirò che perderò il senso di ogni cosa,

che la pesantezza si trasformerà in malinconia,

che un’infinita attesa diventerà la pace.

Le fitte trame delle sottane delle orchestrali

eternano il movimento della folla all’uscita,

nel viale. Sublime e vano il turbinio delle mani,

lo strenuo tentativo della giovane violoncellista.

La furia con la quale si dibatteva era brezza

che incideva un’aporia, un taglio profondo

nel valico semico stesso della finitezza.

E stremata, un crescendo e stremata un crescendo.

Ma non vorrei che i graffi sulle calze, di lato,

fossero unghie impigliate in teorie da rivista,

pastiche diffuso e possibile. Come rossetto sbavato.

Nonostante, le verità che ancora cerchiamo, oceani

persi con naturalezza tra le corde spezzate e le dita

è nel richiamo del vento, in frequenze abissali.