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E fu operazione bellica tra le mie faide senza nome.

Paragliding in intimus

L’incubo è la mia notte
Che giace
Silente
Molesta
Mi inghiotte
Premendo nei miei sospiri
Che hanno ricordi e si spezzano
Frastagliati nel vacuo tetro
Di assidui ritiri
Nei crucci che aggrappano costanti
Al mio avvenire
In uno squarcio sull’oblio

E potrei piangere fra i tanti
lavare il supplizio nel caldo del fuoco
Dondolando ad orologio
E passando
Tra ieri ed oggi
Restando il mio più vile gioco.

Senza vittoria

Potrei essere spazio
e ovunque cercarti
Ma dissipando in lenti sospiri
mi chiedo perchè
ancora
vuoi donarmi la pietra
scalfita dal mio singhiozzo
E girare il volto
nell’indenne tuo credo
perché non hai inquietudine
che ti sleghi
a questo borioso
incespicare
In rami di spine
a perderne la rosa.

E se forse
Scorgendo i tuoi luoghi bui,
Strimpellando sulle mani tue,
Potessi scovare
La mia fede?

Cavillo

Errante, tra i passi nel cielo
Non doni certezze,
Faresti ardere le braci
Se al tocco ti spegni,

Antecedente distruggi sconfitte,
Idiosincratico gesto senza perdono,

Dove ti trovo fitto tra i grovigli, potrei pensar che di notte non dormi,
Ma se resti cauto
Rindondi tra le mie voci e spogli i maestrali,
Lontano li curi lasciandoli al mar.

Anticorpi

Come polline,
oscillo nell’aria
volteggio, danzo
mi dileguo su smorte distese
Vago.
Trovo il mio ritorno,
con pesante anelare

Giungo a te,
Come allergia.

Soffio del tormento

Sfila,
tra lenti passi,
La steppa acre di collera
Gioca
lungo giochi di proiezioni.
Il vento lascia
le trasparenze sul suo fitto stupore

Si agghiaccia la scelta,
sfiorisce.
Si ricalca su terra bagnata,
senza tradire fiducie,
impregna colore e dolore.
Plana da lontani flagelli,
cade a picco sul divieto di lasciarsi morire,
Per dar respiro
alle farfalle.

A me, resterai sempre immobile per non cadere,
A me, non ai miei occhi, resterà sempre il calore del peso di un corpo, vivo, morto, che differenza fa.

Spogliandomi di vesti non mie,

a me resterai sempre onirico e sfocato, agli occhi miei non esisti come non esiste morale a questa faccenda.

La fuga e la prigione.
E’ eterna la condizione che ci acclama, è sempre così riservata la lama che pervade nella mia testa se penso all’aria che resta.

Flussi costanti, monotoni,
e poi dal nulla riaffiora la mano tua giallastra.
E’ tra i narcisi, e ora picchia il sole.

A me, non ai miei occhi, sarai sempre eterna solitudine,
roccia nell’oceano,
betulla in un prato di viole.
Dolomiti alle mie vedute, non più colline.
Intemperie che si ritrovano su di me, sulle mie spine nel fianco e ancora,
io che di te non ho vedute.
Ho sparso ancora nell’aria fuochi e ceneri che ne hanno cambiato colori al cielo.

A me, non ai miei occhi, resti fragile come foglie in autunno.
Così che non possa dimenticarmi che si cade, quando si pensa a te.

Come farei a non pensarti, amore macchiato, ramo spezzato, cane sbranato.
Come farei a non pensarti, se al mio corpo appeso rimani.
Come farei a non pensarti, se nel limbo ti aggiri vorticosamente riprendendomi dai capelli lunghi e riportandomi a dove sei tu.

A me, resterai albero con le radici,
deserto di sabbia,
savana, e palude.
A me lascerai l’ardore delle cose sconosciute e delle cose mai provate, la bellezza dei giorni e degli anni mai visti.
A me, e non ai miei occhi, resterai sempre acqua alla gola.
Ambizione,
noncuranza ed immagine eterna.

Ma ai miei occhi, non a me, resterai del colore del vento, delle cose invisibili, poco tattili.
Ai miei occhi,
vento,
che quando tira forte fa piangere.