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L’impero degli Infer(m)i

Tremiti nostalgici;
prega con me:
venera, venera
la dea della crescita
spirituale
e delle Tenebre.
Possano – così – calare
sulle nostre palpebre
inconsapevoli di tutte
le morti che
dovranno iniettare.
Intercambiabili, fintanto che
i nostri volti decrescono
alla luce dell’Arno, si fa tardi:
è da Mezzanotte, ormai, che ti parlo.
“Ristabilisci in me
il Profano: è questa
la cura (salva la primavera, Proserpina, fallo!).
I baci: dammene tre.”
Così la figlia – finalmente –
inspira e si distende.
“Affrettati, presto, chiudi
tutte le tende!”
Non vogliamo che qualcuno ti
veda, di nuovo, risplendere
nel regno delle Tenebre:
comprenderebbe, poi, che è questo
ciò che ti appartiene veramente.

Evadendo dai lacunosi soffitti
mi sembra di vederli:
i ritratti di ognuno dei volti
(forse fantasmici)
che costellano le alture dell’Eros:
complessi, e troppo
(distortamente, tra loro) diversi.

Mi hanno detto che la perversione
può avere varie forme;
la mia preferita
è quella del far finta che
niente importi.
Un narcisismo egosintonico,
che ogni volta pare imprevisto.
Le categorizzazioni esistono
eccome,
è inutile che diciate;
se la mia svastica
(quella che ho sui fianchi)
mi insegnasse ad essere intollerante,
quanto basta, per governare
i varchi che ho tra le gambe
(suona male, sì, ma intendo dire che)
dovrei riuscire
un giorno, a procreare,
nonostante il vuoto del mio ventre
incapace, come il mio cervello
per un qualsiasi tipi di algoritmo,
di ritmo ossequioso, ossesso,
disgustoso;
la fame non del corpo
ma della pelle sopra-a-tutto
e le ossa non si sentono più,
spossate dalle rabbie (e gabbie) altitonanti
pietre laviche, spine sante…
cosa manca? Cosa manca
per i nostri romanzi?

Una bella –  romantica – fine:
una morte lenta, struggente,
per mettere punto alle nostre
più dubbie, e insistenti,
esistenze.

Chi ce lo fa fare poi,
di riprenderci per le spalle,
non comprendo davvero, non riesco,
a capire dove trovate le palle
per continuare a gridare, incazzarvi,
senza nessuna
voglia (più) di rinascere dai salici e
dalle fitte terre della laguna selvaggia e primogenita.
La gemma sostanziale
si trova lì, nel carnale caposaldo
del fiume in piena.

Lì si trova la fonte
di tutto ciò che circonda
l’umile tristezza della terra.

Lettera ad un amico

A volte ho l’impressione
di essere annichilita
da chi mi sta intorno.
Sono sicura di essere stata annichilita
dall’amicizia falsata, imbastardita
dagli eventi, sopraffatta dai troppi
sentimenti.
“Chi di spada ferisce
di spada..?”
Io ce l’ho ancora dritta in petto,
e tu che l’hai impugnata,
tu: ti sei ostinato ad infilzarla
nella carne di chi, come uno scudiero,
sempre ti è stato fedele.
Il tradimento! Chi, chi me lo restituirà
il tuo pentimento:
sei offuscato, troppo offuscato
dall’austerità; dalla ristrettezza
d’animo! Tu che irrigidivi le membra,
spesso,
all’affetto manifesto.
Tu che restavi basito
di fronte alla natura estroversa
arricchita dalle più sincere passioni,
pure, maestre.
Tu non sei più. Tu non hai compreso,
ti sei rifiutato. Tu che ti facevi mentore
di arti secolari,
di poesie,
di resoconti ilari.
Mi manchi, ma
magari
(tu) non mi penserai.

Ultimi lasciti

“dagli all’untore!”
crepita la boccia d’acqua
marcita e stritolata
senza neanche potersi difendere

in una reggia di plastica
tende
l’ala al vento,
(una finestra senza tende?)
rottami di
barattoli di marmellata
protestano infelici
perché

il pane nessuno lo vuole:

impallidiscono di fronte alla chiusura
dei distributori di benzina

l’unico distributore
che necessitiamo per vivere
in una latrina.