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15 – 04 – 2017

ragnatele di fili elettrici scavano strade nell’aria
e i funamboli le percorrono barcollando ridendo da un palo all’altro, sbronzi di cielo.

mare (magari! cazzo) – prato mare di spighe e terra che sale – pioppi sazi di sole (poi altri alberi che non so chiamare) – cielo e basta. ci mette una vita il sole a morire oggi.
noi a seguire profonde arterie di tenebra sotto all’epidermide periferica della metropoli dolce dolce come dolce è il mio sangue. microsatellite di cartilagine brucia ogni lucciola nel bosco. spiro il fumo dei cannoni che mi hanno crivellato, i proiettili erano sono dolci dolcissimi anche loro come dolcissimo è il mio sangue. il sangue ossigenato che scolo fra le piume che frullano frullano allo scorrere denso dell’aria che mi ci perfora in bicicletta e nella testa non riesco a fare a meno di parlarmi – parlarti – mi aiuta a ricordare poi, l’aria che mi attraversa adesso. mi ripeto – ti ripeto i concetti molte molte volte, la mente crivellata perde memoria ovunque e a tratti taccio
dipendenza dai colpi, emorragia dolce dolcissima e vorrei ricordare, so che non ricorderò.

la vita come risultato dell’inarrestabile amplesso del tempo che fotte con Dio
riconosco che è tutto un pisciare figli o ricordi in una culla di pizzo sfondato.
che poi altro non fanno che cadere cadere cadere cadere. a immagine e somiglianza, l’inesorabile precipitare isterico o parto eterno.

incontriamo una persona, un amico si dice (ma amico si dice quando ci fumi), fugace, un istante, lui non ci ha lasciato niente, e si torna in testa corpo e coda alla carovana – io e l’altro amico – attraversiamo il deserto di uomini passando per il supermercato – oasi il reparto di schimica – smontando infine davanti al Monumentale. la memoria ignora i contorni del viaggio e il concetto di tempo. un fagottino al cioccolato divorato e poi un altro e un altro poi. un gatto nero ci avvicina e ci offre un altro mezzo fagottino, lo accettiamo, ci è simile, ha una stella polare imputata sul petto. una macchia bianca. è bellissimo. sul gradino del marciapiede la piazza dietro ai raggi delle bici la piazza ci appare enorme e deserta, anche il gatto la guarda. l’amico il gatto ed io. e nessuno parla. qualcosa in ascolto di qualcosa – ascolto le vibrazioni sismiche dell’asfalto vivo sotto al culo alla schiena alla testa, la città dice
dormi dormi dormi sereno sei nei pressi sei di un cimitero su di te veglia un gatto nero.

accolgo altri colpi e mi lascio franare e godo dell’emorragia che scola scola dal cervello spaccato dalla sostanza. il tempo il tempo non esiste. io sì.

E lucevan le stelle

Io – scavata in una ruga del divano
Tu – come me.
Il culo – disperso nel cosmo di poliestere
space shuttle di pasticche nell’esosfera del Madopar.

Parlami del mare
Raccontami e fammi scordare
Perché non ti penso mai.

Ora mi guardi e sorridi

E mi ripeti di dire a mamma di portartene ancora di quelle riviste. Ne hai ancora solo due. Di portartene ancora. E io penso a quelle riviste che sono quelle vecchie che prima stavano dal parrucchiere che donne annoiate hanno sfogliato il cranio divorato dal tepore del phon e che tu ora leggi il cranio confuso dai solitari. Dove vinci sempre.                                                  Perché ti piacciono.
Di portartene ancora.

Parlami del mare
tu – donna da amare
soprano a metà
cantante prima ancora che nonna
assai prima ancora che madre.

Ti penso raramente
Ma lì – fra le rughe del divano – le tue giornate vacue
Parliamoci del mare.

Io – ci pensi mai?
Tu – Tosca sai, io non penso a niente.

 

Soli al buio in una stanza
fissiamo oltre al soffitto nero
le mille lune elettriche della città
che scivolano fra le persiane dischiuse
giocando a scacchi con le ombre

In una stanza, sotto le coperte,
ci scaldiamo come fa Milano
sotto i suoi veli cancerogeni
e pensiamo che, in fondo, siamo sempre in due,
me ed io.

allora più che mai
avvinghiati in un abbraccio
che ci isoli dall’angosciante deserto
che ci percuote il cranio aperto –
che tagli fuori la luce
di quelle mille lune a basso consumo
graziosamente impiccate a questa volta di fumo –
che possa evitare
che le braccia mi si stacchino dal torace,
e così le gambe e la testa
e ogni cosa
e che
mentre tutto tace
io mi scomponga

in infinite parti esplosa.

Necrologio ad un muro

C’è un parchetto dietro casa mia.
Su tutti e quattro i lati del suo rettangolo è costeggiato da strade. Cemento, righe bianche, dossi e ancora tappeti di catrame. Accanto ad una di queste strade si srotolava inoltre un muro,
colui che in questa triste mattina rimembriamo e piangiamo con smisurato affetto.
Il muro, non è mai stato bianco. Partorito con un taglio cesareo inflitto al ventre stanco del suolo ai tempi del Big Bang industriale – È sempre stato se stesso. E al di là del suo viso scrostato c’era un campo da calcio abbandonato, con l’erba incolta, qualche tronco sparso e un tempo anche una tribuna marcita. E sul suolo di quella terra solitaria si potevano trovare malinconiche carcasse di cessi e altre creature fantastiche.
ho amato quel muro e quel mondo di nessuno.
D’inverno, era l’accesso alle orbite di un cieco. I rami degli alberi penetravano muti la nebbia per tendersi al di là e ricadere sulla strada. Come uniche testimonianze del mondo che c’era dall’altra parte.
ora quel muro, non c’è più.
Pale e scavatrici stanno sradicando sogni e mistero e molto presto non resterà altro che un cimitero d’infanzie.
Già ora si vedono solo zolle di terra squarciata e cadaveri di folletti.
e agonizzano i rifiuti abusivi
Quella terra è diventata di tutti.

Ci sono sguardi sui quali si inciampa
e poi, superstiti, ci portiamo sempre dentro
quel vortice di iridi
come ricordo di una follia muta, senza senso
che ci preme il petto di dolce triste splendida
sbornia di vita.