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Poesie d’amore

Poesie d’amore
non ne scrivo.

Ciò che vive la penna
io invece non lo vivo.

Scrivo d’odio e rabbia
getto in carta il sogno,
così salvo la mia pace
e a subire è il foglio.

L’amore val la pena,
di non sprecarlo in fantasia,
ma gustarlo nella vita vera
(anche al costo di una poesia).

Guanciale

Domando alla mia casa,
al frigo e alla dispensa,
all’acqua calda di una vasca,
a una tazza semivuota,
al pan secco, al cioccolato,
al lavoro non terminato,
al vino che è avanzato,
a quel testo mai finito:
“con voi son meno solo?”
ed essi non rispondono.
Ma io so a che cos’altro
domandare per i mei guai.

Domando alla mia tana,
dove l’anima mia pensa.
Domando alla chitarra
“con te son meno solo?”
ed essa mi risponde:
“do, mi, sol, non so far altro
che cantare ciò che vuoi”.
Domando quindi al foglio:
“con te son meno solo?”
ed esso mi risponde:
“io non so dirti nient’altro
oltre quello che già sai.”

Domando alla mia amata
fantasia, che mi consola
da una vita, che ho sprecata
fallendo nel placare
l’amarezza per cui domando
ogni sera al mio guanciale:
“con te son meno solo?”
ed esso mi risponde:
“Dormi solo. Non hai altro
che i sogni che farai
questa notte, come di giorno
sogni affetti che non hai”.

I miei occhi leggevano
un libro di poesie
che riposi, per leggere i tuoi.

Nubi

Troppo a lungo fui schiavo d’una mostruosa [sofferenza,
e troppo ho sorretto il suo peso soggiogante
perché possa permettere a questo giovane sorriso
di esitare un momento, o crollerò nel mio antro.

Davvero troppo temo, quando fiuto il tempo nero,
che possa essere l’ultimo, il cielo azzurro che [vedo.
Come un bimbo, tremo, al pensiero della pioggia.
Non voglio! Non voglio che cada una sola goccia!

Nubi note e lontane aleggiano inquietanti,
come monito sgradito, giunto dal passato,
sin da dietro l’orizzonte che avevo seminato.

Nubi torve e spietate si avvicinano incuranti
che rifiuto disperato di bagnarmi ancora il capo.
Cerco riparo ma invano, perché il cielo è [sconfinato.

Pensieri segreti

Aprendo la finestra al mattino,
colto dall’impeto della parola,
vorrei affacciarmi sorpreso
su un giardino di anime urlanti
che dicano quanto basta
perché possa tornar sereno
a letto, sapendo che nel mondo
tutto è noto e tutto è detto.
Niente vergogna ma comunione,
catartica, d’ira e passione.

In altre parole libertà di tacere,
poiché il solo a voler gridare
è chi nel cappio del silenzio
non sopporta di soffocare.
Si stringe ogni giorno
tale nodo intorno al collo,
non di uno ma di tutti,
timorosi di aprir bocca.
Basterebbe, a respirare,
liberare quei pensieri
che nascono sinceri
ma che muoiono segreti.

Fulgore

Avevo imparato a svegliarmi e trovare
una compagna sconosciuta
nel mio letto d’algore.
Avevo imparato a darle anche un nome
e poi a farmela amica:
si chiamava Dolore.
Avevo imparato ad ascoltarne la voce
insegnarmi la vita,
la bellezza, l’amore.
Avevo imparato le più gloriose parole
con la cornea annerita
da quel tetro colore.
Avevo imparato che si può far sbocciare
poesia grave ma fiorita
anche nella disperazione.
Avevo imparato che il più torbido umore,
nella più acuta ferita,
è il concime migliore.
Avevo imparato a coglier le mie more
pungendomi le dita
senza guanti né cure.
Avevo imparato a gustarle anche amare,
ché la gola avvizzita
agognava mangiare.

Avevo praticato solo questa passione
per tutta la vita
rimettendoci il cuore.
Avevo creduto che ogni giorno piove,
che non c’è via d’uscita,
che non sbuca mai il sole,
che il dolce della vita nasce solo da una forte
bufera accanita.
E accettai la mia sorte.
Ma un’alba noviza, cocente di sole,
trasforma ogni ortica
in un soffice fiore.
Ricaccia la tenebra e prosciuga dal male
la palude imputridita
in cui usavo soffrire.
Imparai a nuotare soltanto in quel mare
e trovarmi qui a riva,
coperto di sale,
mi secca la pelle e vorrei ritornare
nella pozza ormai vuota,
che non so abbandonare.
Non sente, il tatto, alcunché di familiare:
son rugose le mie dita,
devono ricominciare.

Dovrò reimparare ad apprezzare con calma
la commedia meno arguta,
oltre il solito dramma.
Dovrò reimparare a dar senso alle cose,
alla Bellezza, alla Vita,
persino all’Amore.
Dovrò reimparare a legger tali parole
con la vista abbagliata
da questo fulgore.
Dovrò reimparare che è veleno il liquore
di cui la bocca asciutta
sopportava il bruciore.
Dovrò reimparare a vestire il buonumore,
a ingoiare acqua pulita,
dal commovente sapore.
Rimpiango triste Luna e il suo candore albume:
vecchia guida ora smarrita
e prima unico mio lume.
Ma una nuova compagnia, proietta il bianco sole:
una cicatrice sopravvissuta
al giorno sanatore.
Puntuale ogni tramonto, la mia cara ombra nera
ricorda l’era ch’è finita,
crescendo nella sera.

Mare mite

Ogni cuore quando stride
grida chiaro ciò che sente.
Quello gaio invece tace,
e piuttosto canta e ride.
Quando chiede la sua mente
di spiegare la sua pace,
la zittisce: “non parlare,
ch’è sprecata la mia voce!
Vorrei solo far notare
che a volte il mare è mite,
non costringermi a nuotare,
ché almeno oggi son felice”.

Una sola parola, vorrei trovare,
che dica tutto davvero
per poter finalmente tacere
e nondimeno capirsi per sempre.

Cosa serve

A che serve
plasmare manichini
di pittura, note o versi
che non si possono abbracciare?
A chi serve
sudare una vita
per conquistare grandi vette
che non sanno consolare?
Non ti serve
costruire monumenti
che non hanno orecchie
per ascoltare cos’hai da dire.
Non ci serve
che il tepore
del vicino, delle sue parole,
di una tazza e un po’ di vino.
Servono mani
da fregare insieme,
e dita calde da intrecciare,
quando il tempo porta neve.

Odio la poesia

Odio la poesia.
Le parlo e non risponde.
Mai mi svelerà
se mi ha salvato
o se mi ha ucciso.
Intanto lei ascolta
il mio cantare tenace
e assiste impassibile
allo svanire della mia voce.

Odio la poesia
e ogni rigo partorito,
generato con il fiato
affettuoso della vita.
Mi assomiglia come un figlio
ma d’affetto è privo, e freddo
giace in terra appena scritto.
Non mi parla, è solo un foglio!

Odio la poesia
come s’odia chi tradisce,
come s’odia chi si ama,
come s’odia il proprio sguardo
nello specchio più sincero:
suggerisce, muto e austero,
che stai odiando un viso morto
che stai odiando solo un foglio
e con esso anche te stesso.