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Damn Johnson

Damn Johnson.

Schiantato sul bus. Damn, sento russo che mi brucia il timpano, Boshka!
Un fratello stasera se ne è andato, figlioli, manco un addio decente sono riuscito a dirgli.
Prosecco nelle vene e Lei, fratelli, una Boshka di bronzo corvino che un abbraccio è una accoltellata.
Umidità del cazzo, è ora di un dannato Gin Tonic.

Corridoi sotteranei, segrete malvage e discorsi buii nei retroscena del palcoscenico del mondo danno vita alla commedia.

“Sei un cazzo di coglione!” Lo so Fredson, ma la poesia sconfigge le fiamme dell’inferno.
Cazzo, sto tramonto da pulman grezzo senza aperitivo sbronza le mie narici.
Vattene vecchio! Guardami, non ho niente che ti può fregare.

Vene d’oro riccioli di gin, specchio dello sguardo di ghiaccio. Sabbia amara tra le ginocchia e sei ricordo d’ombra. Carotidi violacee nel buio dei fiumi di Parigi.

Ornate d’oro i coltelli, fratelli, e catturate lo sguardo alto della Dea!
L’ordine lo eseguo, principessa, e nell’ombra dei tuoi capelli mi dileguo.
Buio e calci in faccia.

Prossima volta sull’altare del vitello ci voglio essere io!

Anche i rincoglioniti piangono

Si nasconde in disparte

negli angoli bui

in cui combatte i suoi demoni.

La pelle diviene rugiada,

il cuore un cavallo galoppante,

i muscoli pietra granitica,

gli occhi evitanti

e lo spirito schiacciato dal peso degli sguardi.

Si scorda cose,

non performa

e si mangia le parole.

Stupidità è la sua lettera scarlatta,

il marchio indelebile

cucito da lingue fredde come il metallo

e osservandolo prova ripugnanza

così come quando pensa a se stesso;

ma per favore abbiate pietà,

sputate il veleno in sua assenza.

Cercando attentamente nei suoi occhi

sarete accecati a un certo punto

da ogni sfumatura esistente del dolore.

Colpite con molta cautela

perché anche i rincoglioniti piangono.

Appunti su una canzone dei Radiohead

Sterminata vacuità
carenza cromatica
solo sabbia e grigio
svettano i monti inermi
sparuti
siedendomi sul vortice
orizzonte degli eventi del burrone
spigoloso terreno
quasi dolore
accetto l’unicità
percepisco perpetuo il moto di qualcosa
dentro
fuori
dei pianeti forse
del mio mondo arido saturo
secco intorno
inodore come il freddo sulla pelle
veloce rispetto alle stelle
fisse nel ventre dell’universo
costellazioni immaginarie
magnifici dipinti sul mondo
alzare la testa questo basta
e poi
infine
percettibili appena i miei sensi
audace perseveranza
catartica nelle fibre,
artico ormai
il mio terreno.

Ad Ana

Se il senso del giorno fosse
carezza, tocco familiare,
brezza.
Scarterei la parola e troverei
uno sguardo.
Di notte vedo solo la luce
Il resto é il mio buio, caldo.
Posso fermarmi? Posso?
Restare in letargo,
mettere sulle emozioni un embargo?
Uscire dal mio corpo
ed invertire gli emisferi
Posso?
Posso passeggiare con te di fianco ed amarmi? Posso?
Perdonarmi per avere l’ergastolo alla buona memoria
ed essere imprigionata in un corpo di cui non conosco tutta la storia?
Posso?
Posso sentirti?
Posso guardarmi ancora e vedere finalmente il mio vissuto per come sono ora?
Posso?
Posso crescere ancora, permettermi di invecchiare e non finire questa vita finché non verrà la mia ora?
Posso?